Presentazione di Roberto Cecchi (dal Volume Speciale: Arnolfo di Cambio: Il monumento del cardinale Guillaume De Bray dopo il restauro)

    

La ricomposizione del monumento funebre al Cardinal De Bray è un ardito progetto di restauro, da cui emerge con forza la suggestione di sperimentare la ricomposizione architettonica che si vuole riconducibile ad un originale intuizione compositiva del maestro Arnolfo. La scelta indubbiamente difficile di andare in questa direzione si fonda su un accurato lavoro di riconoscimento dei lacerti lapidei esistenti all’interno del complesso monumentale di San Domenico e su considerazioni di carattere storico critico. Ed in particolare, sulle riflessioni proposte nel saggio di Angiola Maria Romanini La sconfitta della morte. Arnolfo e l’antico in una nuova lettura del monumento De Braye, pubblicato nel catalogo della mostra Bonifacio VIII e il suo tempo edito nel 2000, che ricorda di aver riconosciuto nel 1993 nella Vergine del monumento al Cardinal De Bray una statua romana del II secolo.
La soluzione messa  a punto per il restauro si basa sull’assunto che in qualche modo sia possibile interpretare in termini critico progettuali il testo delle testimonianze materiali stratificatesi nel tempo, piuttosto che accettare il farsi della storia con tutte le contraddizioni che inevitabilmente questa porta con sè. Un modo d’intendere il valore delle testimonianze materiali che risente di una particolare temperie culturale di cui si è molto dibattuto in questi anni.
Il restauro al monumento De Bray si propone in maniera esplicita di arrivare alla riscoperta della primitiva spazialità e della profondità prospettica. Il risultato più atteso è quello di ridare al monumento l’originaria organizzazione compositiva, che secondo le riflessioni proposte nel volume avrebbe dovuto consistere in una serie di piani, realizzati in un intervallo molto contenuto, in grado di suggerire scorci e fughe che mutano al variare del punto di vista, man mano che dall’ingresso della chiesa ci si avvicinava al monumento. Per tutto questo, è stato rivisitata l’idea di un Arnolfo “mente architettonica”, che secondo una felice definizione di A. M. Romanini «in primo luogo fu architetto e solo in quanto architetto fu scultore e pittore».
Lo scultore usò l’antico in forme diverse, secondo una prassi estremamente diffusa che impiega i materiali antichi anche semplicemente come materiale da costruzione. È il caso della parete di fondo della camera del giacente che è il retro di un sarcofago, mentre due colonne scanalate vengono usate per ricavare il corpo del defunto e la statua di San Domenico, insieme ad una grande quantità di altri elementi usati in funzione architettonica.
Diverso è il caso dell’uso dei materiali di spoglio dove si scorge una qualche consapevolezza del loro valore storico, come nel caso della ‘Vergine in trono’ che si trova nella parte sommitale del monumento ed è frutto della trasformazione di una statua del II secolo, che Francesca Pomarici mette a confronto con la ‘Giunone’ della Triade Capitolina conservata a Palestrina; o come nel caso dell’ampia cornice a dentelli, riutilizzata tale e quale a coronamento della galleria superiore; o ancora dell’esuberante marcapiano a fogliami, usato con l’intento di mettere in rilievo la sua spiccata connotazione decorativa.
L’intervento di restauro dell’opera arnolfiana, tra la fase preliminare di studio, la ricerca d’archivio e la  fase operativa, ha richiesto un periodo di tempo lunghissimo che va dal lontano 1990 al 2004. Da cui emerge che ancora una volta il tempo necessario al compimento di un’operazione di questa natura, non può rispondere a calendari precostituiti e a scadenze definite e va invece accordato pensando alle tappe di un percorso.
Il progetto realizzato al San Domenico d’Orvieto trova il conforto di studiosi italiani e stranieri che si sono  confrontati nel corso del convegno promosso nell’ambito delle manifestazioni celebrative del VII centenario della morte di Arnolfo di Cambio dal titolo Il monumento del Cardinal Guillaume De Braye di Arnolfo di cambio dopo il restauro e che vengono pubblicati in questo volume del Bollettino d’Arte.
Com’è naturale che sia, l’intervento di restauro e il convegno che ne è seguito sono stati anche lo spunto per la rilettura critica di un modo d’intendere la storia; è il caso del contributo proposto da Carlo Arturo Quintavalle, che muovendosi sul filo delle ricerche proposte dalla Romanini, s’impegna con grande successo in una riflessione ampia sul tema dell’antico nella cultura medievale, che gli consente di ridiscutere un  argomento caro alla storiografia, quale è quello del reimpiego del materiale di spoglio, l’imitazione e la continuità di quest’uso dei testi antichi in età medievale. Una cultura che ha usato a piene mani e in maniera disinvolta le testimonianze del passato. Com’è accaduto con la cultura rinascimentale e oltre, fino a i giorni nostri. La storia del restauro ha registrato puntualmente eventi di questa natura che la letteratura documenta con dovizia d’esempi.
Questioni dibattute lungamente, che trovano precedenti importanti in antico ed in epoche più recenti, come quella rinascimentale, dove non mancano testimonianze del valore di quella del Vasari che parla a proposito della sistemazione che il Lorenzetto realizzò nel cortile di Andrea della Valle «[…] dove accomodò nel partimento di quell’opera colonne, basse e capitegli antichi, e spartì attorno per basamento di tutta quell’opera pili antichi pieni di storie. E più alto fece sotto certe nicchione un altro fregio di rottami di cose antiche, e di sopra nelle dette nicchie, pose alcune statue pur antiche e di marmo, le quali se bene non erano intere, per essere quale senza testa, quale senza braccia et alcuna senza gambe, et in somma ciascuna con qualche cosa in meno, l’accomodò non di meno benissimo avendo fatto rifare a buoni scultori tutto quello che mancava. La quale cosa fu cagione che altri signori hanno poi fatto il medesimo e restaurato molte cose antiche, come il cardinal Cefis, Ferrara, Farnese e, per dirlo in una parola, tutta Roma». Una libertà e un’indipendenza di giudizio che ci trova ancora estranei e impreparati a riconoscere compiutamente procedimenti ed intenzioni.     
Il restauro è stato finanziato interamente con fondi del Ministero per i Beni e le Attività Culturali ed è stato condotto dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici, Artistici e Storici dell’Umbria insieme all’Istituto Centrale per il Restauro.